Domani 20 FEBBRAIO 2020 la Festa del GIOVEDI’ GRASSO a VENEZIA …

PASSATO e PRESENTE

Dallo SVOLO DEL TURCO al VOLO DELLA COLOMBA fino alla

BALLATA DELLE MASCHERE con il TORO, 12 PANI e 12 PORCI …

 

Verso la metà del Cinquecento, durante il CARNEVALE DI VENEZIA un giovane acrobata turco aiutato solo da un bilanciere riuscì ad arrivare alla cella campanaria del campanile di San Marco camminando sopra una lunghissima fune che partiva da una barca ancorata sul molo della Piazzetta. Nella discesa, invece, raggiunse la balconata del Palazzo Ducale, porgendo gli omaggi al Doge.

La spettacolare impresa, subito denominata SVOLO DEL TURCO, ebbe molto successo e venne richiesta e programmata come cerimonia ufficiale del

GIOVEDI’ GRASSO per le successive edizioni, con tecniche simili e con forme che con gli anni subirono numerose varianti.

Ma nel 1759, l'esibizione finì in tragedia: ad un certo punto, l'acrobata si schiantò al suolo tra la folla inorridita.

Probabilmente a causa di questo grave incidente, l'evento subì una radicale modifica : l'acrobata venne sostituito da una grande COLOMBA DI LEGNO che nel suo tragitto, partendo sempre dal campanile, liberava sulla folla fiori e coriandoli.

Il VOLO DELLA COLOMBA lasciò quindi il passo all’attuale VOLO DELL’ANGELO che si svolge la seconda domenica del Carnevale di Venezia, durante il quale la vincitrice del concorso di bellezza delle ‘Marie' del Carnevale dell'anno precedente si lancia dal Campanile di San Marco attaccata ad una fune per raggiungere Palazzo Ducale.

La Festa del GIOVEDI’ GRASSO vede oggi protagonista la

BALLATA DELLE MASCHERE con il TORO, 12 PANI e 12 PORCI a cura della “Compagnia L’Arte dei Mascareri” che ha ripreso e interpretato l’antico aneddoto per cui nel giorno di GIOVEDI’ GRASSO dell’anno 1162 si celebrò la vittoria del doge Vitale Michiel II sul Patriarca Ulrico di Aquileia con i 12 Feudatari ribelli.

 

“Tagiar la testa al toro” - TAGLIARE LA TESTA AL TORO

 

Il curioso modo di dire identifica una soluzione drastica, alla quale ricorriamo per liberarci del fastidio una volta per tutte. E viene dal Medioevo, ambientata a VENEZIA nella seconda metà del XII secolo.

Nel 1162 Ulrico di Treven (m. 1181), patriarca di Aquileia, decise per un colpo di mano sulla città di Grado, che il doge veneziano Enrico Dandolo (ca. 1107-1205) governava per la Serenissima.

Ulrico, esponente di una nobile famiglia bavarese, aveva ottenuto l’investitura solo un anno prima grazie a Federico Barbarossa, che in cambio pretese da lui l’appoggio all’antipapa Vittore IV. Il patriarca tedesco era quindi sensibile alle esigenze del Sacro Romano Impero e il suo interesse per la città di Grado era dovuto alle fiorenti saline che, insieme a quelle di Chioggia, Pirano e Ravenna, costituivano una fonte di reddito primaria per l’economia della Repubblica di Venezia e un valido antagonista al commercio del sale dello Stato Pontificio, che con le produzioni di Comacchio e Cervia riforniva tutto l’entroterra padano attraverso il corso del Po.

L’attacco del vescovo di Aquileia costrinse alla fuga Enrico Dandolo, che riparò a Venezia sotto la protezione del doge Vitale II Michiel. Ma la Serenissima non poteva permettersi di perdere Grado e le sue saline. La potente flotta veneziana sferrò un contrattacco fulmineo e prese prigionieri Ulrico di Treven insieme a dodici chierici e a dodici feudatari, suoi alleati nella presa della città lagunare.

Per affrancare il patriarca, Venezia impose condizioni molto particolari. Un monito che avrebbe ricordato nei secoli l’umiliazione che aspettava chi avesse tentato una azione contro la Repubblica:

ogni anno, nel giorno di GIOVEDI’ GRASSO, il doge di Aquileia

avrebbe consegnato ai veneziani 12 PANI, 12 PORCI e un TORO da

distribuire ai cittadini nel corso di uno spettacolo pubblico

E Ulrico, pur di riavere la sua libertà, accettò.



I 12 PANI - che rappresentavano i FEUDATARI alleati di Ulrico, venivano distribuiti

al popolo, mentre la carne dei 12 PORCI (i dodici CHIERICI) era per i senatori della

Repubblica.

La fine più macabra spettava al TORO - il PATRIARCA di Aquileia - che veniva decapitato durante una cerimonia altamente simbolica allestita in Piazza San Marco.


IL TAGLIO DELLA TESTA DEL TORO

Una vera festa popolare per uno dei giorni più importanti del Carnevale, il cui svolgimento è ben descritto da Giustina Renier Michiel in “Origine delle feste veneziane” (Milano, 1829).

 

La “Compagnia L’Arte dei Mascareri” invita tutti a partecipare in maschera alla festa di

GIOVEDI’ GRASSO 20 febbraio. Anticipando il centenario della morte di Dante, l’Associazione rende omaggio al poeta fiorentino ispirandosi al Canto XXI dell’Inferno.



...e vidi dietro a noi un diavol nero


correndo su per lo scoglio venire.


Ahi quant'elli era ne l'aspetto fero! ...




A Campo Sant’Angelo incontro con i Malebranche.

Nel corteo le 12 MARIE con i 12 PANI , gli accompagnatori delle Marie con i COLOMBI realizzati per il progetto “Volo del Colombo Baleno”, 12 MAIALI e 5 porta TORO.



I MALEBRANCHE sono un gruppo di diavoli deputati a controllare che i dannati della quinta bolgia dell'ottavo cerchio, quello dei fraudolenti, i "BARATTIERI", non escano dalla pece bollente. Essi sono dotati di uncini con i quali graffiano e squartano tutti coloro che osino affacciarsi.

Il nome è inventato da Dante e significa propriamente cattivi artigli (le "branche" sono gli artigli leonini), riferendosi proprio agli uncini.

Il lungo episodio è caratterizzato da una innegabile vis comica che lo rende uno dei più famosi dell'Inferno.

Nel passo dantesco compaiono 13 diavoli. Il primo non ha nome ed appare minaccioso alle spalle di Dante e Virgilio mentre attraversano uno dei ponti delle MALEBOLGE. Successivamente ne appaiono altri 12, ciascuno con un proprio nome:

1.      Malacoda (il capo della banda)

2.      Scarmiglione (arruffato o "arruffone")

3.      Barbariccia (il "sergente" della truppa che accompagna Dante e Virgilio lungo l'argine della bolgia)

4.       Alichino (nome tratto dalla tradizione medievale, da cui poi deriverà l'Arlecchino delle commedie)

5.      Calcabrina

6.       Cagnazzo

7.       Libicocco

8.       Draghignazzo

9.       Ciriatto (= porco)


10.     Graffiacane

11.     Farfarello (pure esso tratto dalla tradizione popolare medievale)

12.     Rubicante (= rosso/rabbioso).


I diavoli dai pittoreschi nomi (tutti di almeno 8 lettere dal sapore molto popolano) sono tipicamente medievali. Essi mescolano componenti grottesche e bonarie, sono malvagi ma un po' stupidi per cui è facile beffarli. Ognuno ha almeno una particina nell'episodio, con diversi ruoli e con varie gradazioni di carattere.

Dante aveva avuto modo di assistere a rappresentazioni carnevalesche con uomini travestiti da diavoli. All'epoca erano molto diffusi cicli di affreschi e tavole dipinte raffiguranti i demoni, anche se la fantasia dei pittori nella rappresentazione di questi mostri si sviluppò soprattutto dopo la divulgazione dell'Inferno. In Toscana esisteva anche una famiglia di nome Malabranca.



BARATTIERI

Dal punto più alto del ponte che sovrasta la V BOLGIA dell’ VIII CERCHIO Dante e Virgilio osservano il fossato pieno di PECE BOLLENTE, simile a quella dell'Arsenale di VENEZIA con cui si riparano le navi danneggiate e dove si otturano le falle degli scafi, si aggiustano prore e poppe, si riparano i remi e si rappezzano le vele.

Nella pece sono puniti quindi i BARATTIERI , che nel lessico giuridico del Medioevo indicavano generalmente gli imbroglioni che arraffavano denaro sottobanco o ottenevano altri vantaggi con la frode e quindi, più nello specifico, anche i concussori o magistrati corrotti.

Il contrappasso è piuttosto generico e consiste nel fatto che come in vita essi agirono al coperto invischiando le loro vittime, adesso sono immersi nel buio nero della pece.



“Il Gioco, l’Amore e la Follia” nell’immaginario popolare

(dalle creature Dantesche alla commedia dell’Arte)

 

VENEZIA

 

 

Nei GIORNI GRASSI del CARNEVALE , in tempi passati, si mangiava in abbondanza, consumando tutte le scorte di cibi migliori (come la carne) conservati in casa, prima di entrare nel periodo della penitenza alimentare della QUARESIMA.

In Toscana il GIOVEDI’ GRASSO prende il nome di BERLINGACCIO.

Un dolce BERLINGOZZO per il prossimo BERLINGACCIO !!



g-piattoli-berlingaccio



Il BERLINGACCIO in una stampa del XVIII secolo dove si legge:

“È questo il dì che gioia al cuor dispensa con urli, strida, balli e lauta mensa”

Tutto nasce da berlengo, così ci dice il dizionario etimologico, mentre la Treccani sottolinea che il termine deriva dal tedesco antico bretling, tavola. Ma non finisce qui: per analogia berlingare ovvero chiacchierare o meglio ciarlare a tavola dopo aver mangiato lautamente e bevuto altrettanto, come si legge nelle opere di Boccaccio e del Sacchetti sia con l’accezione di ciarlare sia di abbuffarsi, e berlingatore, il mangione.

Il BERLINGACCIO era quindi il giorno in cui si mangiava a sazietà, in previsione dell’immediata Quaresima.

Il BERLINGOZZO è un antico dolce tradizionale fiorentino tipico dei giorni di Carnevale.

È una semplice ciambella di farina e uova, arrivata fino a noi sembra dalla tavola dello stesso Cosimo I dei Medici, che i popolani portavano legata al collo durante il CARNEVALE , a indicare uno stravizio con cui festeggiare la fine dei giorni di baldoria.



CARNEVALE deriva, secondo i più, da “CARNEM LEVARE” o dal medievale

“CARNEM LAXARE” da cui il termine toscano “CARNASCIALE” (carne a

scialo!), ma anche dall’espressione “CARNEM, VALE!” (ciao carne!) nel significato prevalente di togliere la carne, rimandando ad un concetto di astinenza e quindi, per contrasto, di godere finché è possibile, come un altro Medici sosteneva con il suo adagio più conosciuto del “chi vuol esser lieto sia”… 



«Quant’è bella giovinezza,

che si fugge tuttavia!

Chi vuol esser lieto, sia:

del doman non v’è certezza».



La celebre CANZONA DI BACCO fu composta da Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, in occasione del CARNEVALE del 1490.

E’ forse il più noto CANTO CARNASCIALESCO giunto a noi . Si tratta di un “trionfo” ossia una composizione scritta per essere cantata durante un corteo mitologico trionfale, dedicato al dio del vino, Bacco, accompagnato dalla sua sposa, Arianna. Metricamente, si tratta di una ballata di ottonari.

La canzone è una esaltazione del tema pagano del “carpe diem, concetto fondante della filosofia epicurea : “cogli l’attimo”, cioè goditi la vita attimo per attimo senza pensare a ciò che succederà dopo.



Un dolce BERLINGOZZO per il prossimo BERLINGACCIO !!

Il noto BERLINGOZZO di Lamporecchio” secondo la ricetta di Paolo Petroni che, nelle note storiche che spesso chiudono varie indicazioni e procedimenti, cita una versione diversa circa l’origine del nome che deriverebbe da un certo Berlinghieri, paladino di Carlo Magno, bevitore e mangiatore:

2 uova intere

2 rossi d’uovo

zucchero g 200

1 bicchierino di sassolino o altro liquore all’anice

1 bustina di lievito per dolci

1 bustina di vanillina

1 arancia o 1 limone

farina g 400

1 bicchiere di vinsanto

olio d’oliva

sale

zucchero a granelli per guarnizione

Sbattere le uova e i rossi con lo zucchero, poi unire mezzo bicchiere d’olio, il liquore, il lievito, la scorza grattata, la vanillina, il vinsanto e un pizzico di sale. Mescolare bene, quindi aggiungere lentamente la farina per ottenere un impasto molto liscio. Imburrare e infarinare uno stampo per ciambelle con il foro centrale dove versare il composto cosparso con granelli di zucchero. Cuocere in forno a 160° C per circa 40 minuti, senza mai aprire lo sportello.


 

                                      BERLINGOZZO Lamp



Quando sarà secco, inzuppate il BERLINGOZZO nel VIN SANTO,

come tradizione insegna… e buon BERLINGACCIO a tutti!



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