A CHIERI il MUSEO e la PORTA del TESSILE
nell’ex Convento di Santa Chiara
Costruito nel 1494 per ospitare le monache fedeli all’Ordine delle Clarisse, il monastero fu venduto nel 1809, in seguito alla confisca dei beni religiosi voluta da Napoleone, all’imprenditore di origine ebraica David Levi, che lo trasformò nel primo opificio della città.
Oggi il complesso accoglie in alcune sale dei sotterranei il MUSEO del
TESSILE, nato nel 1997 per volontà di Armando Brunetti, ex imprenditore
tessile.
CANAPA LINO COTONE GINESTRA BAMBU’ LANA SETA
TELAIO TRAMA ORDITO NAVETTA SPOLETTA LICCIO
L’esposizione testimonia l'attività tessile chierese dal Medioevo alla fine dell’Ottocento con una collezione di oltre tremila pezzi costituita da
telai, orditoi, campioni di tessuto, pubblicazioni e poi attrezzi usati per la coltivazione del gualdo, per la tintura in azzurro delle pezze, per la bachicoltura, per la filatura e tessitura e per l’imbiancatura del tessuto.
Tutti gli oggetti e i macchinari ricostruiscono la cultura e la tecnica della tessitura, in particolare modo i TELAI, perfettamente funzionanti grazie all’opera di restauro e periodica manutenzione di un gruppo di tecnici volontari.
La SPOLETTA VOLANTE o NAVETTA LANCIATA (in inglese flying shuttle) è un
congegno inventato nel 1733 da John Kay per consentire la tessitura automatica.
Consiste in una navetta (piccolo manufatto in legno di forma affusolata) che contiene una spoletta dove è avvolto il filato. Essa viene lanciata da un lato all'altro dell' ORDITO da un apposito congegno (cassa battente) posizionato sul portapettine di un telaio da tessitura. Correndo velocemente attraverso il passo (il varco aperto tra la serie dei fili di ordito pari e quelli dispari), scivola sulla serie inferiore, srotolando il filato della TRAMA e va a collocarsi sull'altro lato del telaio nell'apposito alloggiamento da dove verrà lanciata alla battuta successiva.
Nei primi telai meccanizzati invece era necessario tirare manualmente una maniglia che azionava la molla di lancio.
Il LICCIO è una parte del telaio da tessitura che permette il movimento dei fili di ORDITO. Per eseguire un lavoro semplice, come la tela, ne servono almeno due.
Tre per il denim (blue-jeans), quattro per la saia, almeno cinque per il raso, oltre cinque per lavorazioni più complesse.
I licci contengono maglie nel cui occhiello passano i fili.
Compito dei licci è aprire il passo. Nel caso dell'armatura a tela, la più semplice, aprire il passo significa dividere le due serie di fili dell'ordito portando, alternativamente, la serie pari verso l'alto e contemporaneamente quella dispari in basso. Sono necessari due licci, uno porta la serie pari e l'altro la serie dispari. Questo movimento di abbassamento e sollevamento, che incrocia le due serie di fili, serve a bloccare il filo di trama tra quelli dell'ordito e quindi a costruire il TESSUTO.
I primi DISEGNI ORNAMENTALI SU TESSUTO vennero eseguiti
con la tecnica dei LICCETTI ai bordi delle tele, la cui altezza si adeguava alla
dimensione dei telai manuali allora in uso.
I LICCETTI (cordicelle) permettevano l'abbassamento simultaneo di una serie di fili d'ordito corrispondenti al motivo decorativo da realizzare.
La TESSITURA a LICCETTI, sviluppatasi nell'Appennino Umbro-Marchigiano, per secoli venne praticata all'interno dei conventi per la produzione di tovagliati la cui iconografia presenta elementi d'ispirazione naturalistica.
Un esempio molto significativo possiamo trovarlo ai due lati della tovaglia raffigurata nel famosissimo affresco dell' Ultima cena di Leonardo Da Vinci esposta in S. Maria delle Grazie a Milano.
Liste decorative a "liccetti" si trovano in altre celebri opere pittoriche.
- l'Ultima cena di Duccio da Boninsegna (Siena, Museo dell'Opera del Duomo)
- le Nozze di Cana di Giotto (Padova, Cappella degli Scrovegni)
- la Nascita della Vergine di Pietro Lorenzetti (Siena, Museo dell'Opera del Duomo)
- il Cenacolo del Ghirlandaio (Firenze, Convento di Ognissanti)
- La messa miracolosa di Simone Martini (Chiesa inferiore di S. Francesco in Assisi).
Nel tardo Rinascimento si andarono perdendo i valori espressi
dall'ornamento e le raffigurazioni si fecero sempre più descrittive,
lasciarono il posto alla tessitura di più complessi e preziosi damaschi e
broccati di seta.
MUSEO DEL TESSILE a CHIERI
Il TELAIO JACQUARD è un tipo di telaio per tessitura che ha la possibilità di eseguire disegni complessi. Si tratta di un normale telaio a cui si è aggiunto un macchinario che permette la movimentazione automatica dei singoli fili di ordito.
Probabilmente la più importante invenzione nel campo dell'industria tessile, permette di produrre tessuti, anche molto complessi, con il lavoro di un solo tessitore.
Per essere stata la prima applicazione ad aver utilizzato
una SCHEDA PERFORATA, è considerato l'antenato del
calcolatore.
Una scheda utilizzata per immettere programmi e dati in un mainframe IBM negli anni settanta
SCHEDE PERFORATE - Supporto di registrazione in cui le informazioni sono registrate sotto forma di perforazioni in codice: fatte di cartoncino rappresentano l'informazione attraverso la presenza o l'assenza di fori in posizioni predefinite. Nella prima generazione di computer, dagli anni venti agli anni cinquanta, furono il supporto principale per l'immagazzinamento e il trattamento automatico dei dati, mentre a partire dai tardi anni settanta vennero progressivamente accantonate e sostituite dai floppy disk.
La nascita delle SCHEDE PERFORATE precede di molto quella dei computer.
Già nel 1725 Basile Bouchon usò rotoli di carta perforata su telai per regolare il motivo ornamentale da riprodurre sulla stoffa, e nel 1726 il suo collaboratore Jean-Baptiste Falcon migliorò il progetto utilizzando sequenze di schede, rendendo più semplice il cambiamento di programmazione della macchina.
Perforatrice di schede
Il TELAIO Bouchon-Falcon era semi-automatico e richiedeva
l'inserzione manuale del programma; nel 1801 Joseph Jacquard usò schede
perforate metalliche per il controllo di un telaio di grande successo,
maggiormente automatico, noto come TELAIO JACQUARD.
STECCHE in LEGNO forate con cilindretti attappaforo antesignane delle
SCHEDE PERFORATE
CONTROLLO dei filati CAMPIONARI dei tessuti
PASSAMANERIA – Macchina a crochet (doppia serie di uncinetti)
CHIERI : FUSTAGNO & GUALDO
L’ORTO delle ERBE TINTORIE
TINTURA VEGETALE
AZZURRO : il GUALCO di Chieri (macina a pietra per triturare le foglie)
GIALLO : lo ZAFFERANO pievese. Il CROCO del PERUGINO e la Torta delle Monache di GIORGIONE, l’oste più famoso d’Italia “Gambero Rosso”
In occasione di ZAFFERIAMO … 2021 è arrivata la nuova edizione de La giusta dose :
0,50gr di purissimo zafferano in fili di Città della Pieve, diviso in 5 confezioni da 0,10gr, ciascuna accompagnata da una gustosissima ricetta preparata da Giorgione.
Torta delle Monache
Torta di crema frangipane ricotta, dai sentori agrumati e morbidissima al suo interno.
Storie di CLARISSE :
dal monastero Santa Lucia delle Clarisse di Città della
Pieve all’ex convento di Santa Chiara a Chieri
L'Ordine di Santa Chiara (in latino Ordo Sanctæ Claræ, O.S.C.) conosciuto anche come clarisse, sono monache di voti solenni appartenenti all' ordine fondato da san Francesco e santa Chiara d'Assisi (da cui le clarisse derivano il nome) nel 1212: seguono la regola approvata da papa Innocenzo IV nel 1253.
GUALDO ED ERBE TINTORIE
Il nome scientifico Isatis tinctoria non lascia alcun dubbio sui suoi impieghi.
Il GUALDO (o guado) fa parte delle cosiddette "piante da blu", da cui si ricava un colorante di questo colore.
Si tratta di un’erba biennale robusta e poco esigente, appartenente alla famiglia delle Crucifere: vegeta bene in tutti i tipi di terreno. Nel primo anno di vita dà forma a una rosetta basale di foglie dalle quali si ricava un pigmento colorante. Nel secondo cresce fino ad un metro, generando pannocchie di fiori gialli.
Nonostante la sua apparenza modesta ha consentito ai mercanti medievali di coloranti per tessuti di accumulare ricchezze favolose. Tutto grazie al suo pigmento che permette di ottenere tutta la gamma dei blu, dal più scuro all’azzurro cielo, e che rivela all’occorrenza anche un’apprezzabile versatilità. Miscelato a coloranti tratti da altri elementi naturali – come la robbia, la cocciniglia, lo zafferano – lo stesso pigmento offre infatti piacevoli varietà di nero, verde, scarlatto e viola.
Il GUALDO mise innanzitutto radici nelle regioni eurasiatiche. E qui le sue proprietà furono subito scoperte. I suoi impieghi tintorii sono antichissimi: se ne rinvengono tracce già nel 9000 a.C. a Catal Huyuk, in Anatolia, la più antica città finora scoperta. Vi fecero poi ricorso gli Egizi, i Greci e i Romani di età Imperiale. Anche in Europa ebbe parecchia diffusione durante tutto il Medioevo. Diversi i luoghi di coltivazione del gualdum.
A CHIERI veniva comunemente chiamato “er giaun”.
Una vecchia filastrocca recitava “er giaun ch’a r’è bleu”, facendo riferimento con un’unica sintetica frase alle infiorescenze gialle che la pianta genera nel secondo anno di vita e alle sue proprietà di colorare le stoffe di blu.
Anche Plinio cita il Gualdo, attribuendogli l’appellativo glastrum, da cui il toscano glastro. Altri nomi, più o meno assonanti sono il tedesco waid, il francese guède (da cui l’italiano guado) e l’occitano pastel.
Fu in particolare nella Francia del sud che sul GUALDO si sviluppò un’industria piuttosto florida. I globi di pigmento che venivano commercializzati erano detti in occitano cocanhas, da cui pays de cocagne – il paese di Cuccagna – luogo mitico di piacevolezze nel Medioevo e tuttora metafora per indicare enormi ricchezze.
Quando nel XVI secolo le navi portoghesi iniziarono a portare
dall’India in Europa l’indaco, per il Gualdo iniziò il declino.
L’indaco – dal latino indicum, “proveniente dall’India” – è una pianta tropicale che fornisce lo stesso pigmento del Gualdo ma in maggiore concentrazione, quindi con un evidente vantaggio economico.
Ebbe una ripresa nel periodo della dominazione napoleonica quando l’Imperatore ordinò il blocco delle importazioni e incentivò lo studio dell’estrazione industriale del blu dal Gualdo per tingere le divise della Grande Armata.
Con un decreto del 14 maggio 1811 Bonaparte fece aprire un laboratorio nell’ex-monastero delle religiose cistercensi alla Porta del Nuovo e ne affidò la direzione al chimico piemontese Giovanni Antonio Giobert. Proprio Giobert guidò la sperimentazione tesa a dimostrare come le pianta coltivata sulle terre di Chieri fosse più efficace di quelle cresciute altrove. La summa dei suoi studi è contenuta nel Traité sur le Pastel.
A infliggere al Gualdo il colpo finale furono i coloranti sintetici all’anilina, che garantivano una tinta più uniforme, a costi assai più ridotti rispetto ai pigmenti naturali. Allo stato attuale pare che i colori sintetici non abbiano rivali, anche se negli ultimi anni la maggiore sensibilità per la salvaguardia del territorio ha incoraggiato programmi, appoggiati dall’Unione Europea, per l’estrazione di pigmenti naturali da utilizzare in sostituzione di quelli chimici.
La lavorazione del GUALDO
La pianta del Gualdo era forte e rigogliosa. La semina si eseguiva a fine febbraio e già nel mese di giugno si iniziavano a raccogliere le foglie, che dovevano essere strappate e non tagliate per evitare che il liquor, contenente i cosiddetti precursori del pigmento, venendo a contatto con l’aria, dessero subito inizio al processo di trasformazione in tintura. Alla prima raccolta ne seguivano altre quattro o cinque ogni 20-25 giorni fino alla metà di ottobre. Da ogni pianta si raccoglievano circa 250 grammi di foglie. Riunite in mucchi, le foglie venivano fatti seccare in un posto coperto e aerato, rigirandole spesso per non farle marcire. Da 1 chilo di foglie si ricavavano 2 grammi di pigmento. Giunte al punto ottimale di asciugatura le foglie venivano triturate con le macine da Gualdo.
La pasta ottenuta veniva lasciata seccare per 6-8 settimane, in luoghi ben coperti, sopra dei graticci per la migliore circolazione dell’aria e per scongiurare la formazione di muffe. Quindi si formavano pani di circa 500 grammi e 10-15 centimetri di diametro che venivano messi a seccare in appositi locali detti “maceratoi”, dove diminuivano di nove volte il loro peso iniziale, mentre il pigmento si concentrava nel mezzo, con la fermentazione che continuava lentamente nell’interno umido e parzialmente anaerobico, protetto dalla superficie asciutta.
A un anno dalla raccolta, il processo non era ancora concluso, ma i pani potevano già essere commercializzati. Per poterli usare, i tintori li riducevano in polvere fine e li irroravano con acqua bollente unita a sostanze alcalinizzanti – cenere di legno o orina – mescolandoli in continuazione. Questo procedimento reinnescava il processo di fermentazione, con la conseguente diffusione di un odore nauseabondo. Proprio per questo apposite leggi imponevano di compiere queste operazioni lontano dalle case e dalle rogge. Seguiva l’immersione dei panni nel liquido ottenuto. Quindi l’estrazione e l’esposizione all’aria per la necessaria ossidazione e colorazione in azzurro.
San Benedetto è il patrono dei tintori chieresi, da non confondere col monaco di Norcia, padre della regola. L’autenticità della figura è attestata dal decreto di costituzione della “Pia società di San Benedetto martire” datato 5 maggio 1847.
Il San Benedetto chierese si unisce così alla nutrita schiera di Santi patroni di attività connesse alla tessitura:
Bernardino (patrono dei tessitori e dei lanaioli), Genoveffa (dei tappezzieri), Sebastiano e Gregorio Magno (dei passamanai), Biagio (dei cardatori di lana), Barnaba ed Eustachio (dei tessitori), Anna (delle merlettaie), San Luigi IX di Francia e San Luca (delle ricamatrici), Caterina d’Alessandria (delle filatrici).
L’UNIVERSITA’ del FUSTAGNO fu fondata nel 1482, quando L’ ARTE
DEL TESSILE a Chieri era in piena espansione.
Nata come corporazione professionale a difesa di interessi economici comuni, divenne in realtà un’istituzione capace di incidere sulla vita sociale e culturale di tutta Chieri.
Regolando per secoli l’attività del tessile chierese, l’Università del Fustagno mantenne il primato in Piemonte sino ai primi decenni del ‘700.
Lo Statuto dell’Arte che reggeva l’Università era assai rigido. Dava sistematicità all’organizzazione gerarchica interna e all’amministrazione delle finanze. Impartiva inoltre chiarissime disposizioni sul reperimento della materia prima e sui procedimenti ottimali per ottenere merci di qualità superiore, nonché sui tetti produttivi. Fissava anche pesanti multe in caso di infrazione. Di fatto era l’organismo legittimato a pronunciarsi in caso di controversie interne tra i soci.
Per il funzionamento della Corporazione gli iscritti erano tenuti a corrispondere una tassa, ma i maggiori introiti derivavano proprio dalle multe imposte ai soci per le numerose contravvenzioni in cui incorrevano.
Le norme contenute nello Statuto erano minuziose. Alcune erano di ordine generale: i membri dell’Università dovevano avere residenza chierese, nessun operaio poteva lavorare per un fabbricante non iscritto, né era possibile assumere un lavoratore già alle dipendenze di un altro FUSTANIERE. Più nel dettaglio della produzione, si arrivava persino a stabilire la lunghezza e larghezza delle pezze, lo spessore dei fili, il numero dei fili contenuti nella trama e nell’ordito e, tra questi, quanti dovevano essere semplici e quanti ritorti. Si precisavano anche le modalità di piegatura delle pezze.
L’obiettivo era quello di dare uniformità alle merci in uscita da Chieri. Standard di qualità severi, ma che comunque non dovevano intendersi come definitivi, piuttosto flessibili, adattabili alle diverse situazioni di vendita e di mercato.
Oltre alle regole attinenti alla produzione, lo Statuto impartiva precise indicazioni di carattere “sociale” ai suoi soci. Per esempio quella relativa all’ordine di ingresso in chiesa delle mogli degli iscritti, con precedenza alla moglie del socio più anziano, delle ragazze da marito, delle vedove e delle donne andate in sposa nel corso dell’anno.
Il FUSTAGNO e gli altri TESSUTI
I tessuti dell’Università erano tutti contraddistinti da specifici marchi di fabbrica, detti Signa, che venivano registrati nel libro signorum. Assai ampia la gamma delle merci.
Tra i FUSTAGNI si annoveravano i fustanei albi (cioè bianchi – i più pregiati), i fustanei albi et crudi (grezzi, non imbiancati), i fustanei leviu (economici, leggeri), i fustanei forti (di buona qualità, più pesanti), i fustaneis magne sortis (di primissima qualità), i fustanei mediocri o mezani (di media qualità). Quindi, tra i fustagni colorati, i fustanei nigri, tinti col gualdo.
Tra i TESSUTI di altro genere, si contavano la bambagina (tessuto di cotone appena torto), le bandere (cotoni rigati e poi a nido d’ape), le betanine e cotonine (di cotone leggero), le cultre o curtre (cioè le coperte), il damasco (con contrasti di lucentezza nella trama dovuti a una diversa lavorazione), i quadretti (oggi conosciuti come pied-de-poule).
RICAMO BANDERA su TELA BANDERA
Il ricamo bandera è un ricamo a punti liberi realizzato su uno speciale tessuto detto tela bandera, in uso presso le corti piemontesi nel XVIII secolo.
KASHMIR : CONFLICT and STITCHERY (conflitto e lavoro ad ago)
Alla PORTA DEL TESSILE Adam St. Clair racconta il Kashmir con una selezione delle sue fotografie di viaggio e una collezione di manufatti di artigianato artistico di quella tormentata area nel cuore dell’Asia centrale.
TAPPETI in SETA STOLE in LANA Pashmina(capra tibetana) SCIALLI in LANA Shahtoosh(antilope tibetana)
In mostra anche strumenti tradizionali quali aghi uncinati per il ricamo a punto catenella, pettini e kani (aghi porgifili lignei) impiegati a telaio per oltre un secolo.
Una produzione audiovisiva restituisce i suoni che erano parte integrante della vita quotidiana del Kashmir al tempo in cui furono effettuate le riprese : musica trasmessa da una stazione radio locale, l’adhān (chiamata islamica alla preghiera) da diverse moschee di Srinagar, il suono ubiquo della voga prodotto sul lago Dal da chi cerca un incontro o la fuga dal coprifuoco.
Shikara e Case galleggianti in legno di cedro … quanti bei ricordi !!
Floating Vegetable Market on Dal Lake in Srinagar
TESSITURA KANI -
telai a mano con aghi in legno e filo in lana Pashmina
KANI shawl – scialle
RICAMO AARI - prevede un gancio, piegato dall'alto ma alimentato dal filo di seta dal basso con il materiale steso su un telaio. Questo movimento crea anelli e le ripetizioni di questi portano a una linea di catenelle. Il tessuto è teso su un telaio e la cucitura viene eseguita con un lungo ago simile a un uncinetto molto sottile ma con una punta acuminata. L'altra mano alimenta il filo dal lato inferiore e l'uncinetto lo solleva, facendo un punto catenella, ma è molto più veloce del punto catenella fatto nel solito modo: sembra fatto a macchina e può anche essere impreziosito con paillettes e perline - che sono tenuti sul lato destro, e l'ago entra nei loro fori prima di immergersi in basso, fissandoli così al tessuto. Possono essere utilizzati anche fili ZARI (JARI) in oro o argento.
< Un ARCOLAIO per tutti … Era il sogno di mio nonno
Gandhi >
Tara, nipote del Mahatma, si muove con grazia nei colorati sari khadi di cotone filato a mano con l’arcolaio, il charkha, lo stesso dell’abito bianco indossato da suo nonno.
< Gandhi è riuscito a dare a un Paese pieno di contraddizioni, di divisioni e di differenze un senso di nazionalità. Oggi lui appartiene a tutta l’umanità: il 2 ottobre, l’anniversario della sua nascita è stato dichiarato il giorno della non violenza dalle Nazioni Unite >
< Mio nonno ha divulgato l’arcolaio e la filatura per entrambi i sessi creando di fatto la parità fra uomo e donna. Negli ultimi anni c’è stato un ritorno dell’artigianato del KHADI che seguo personalmente da vicino incoraggiando la creazione di nuovi centri. Gandhi credeva nell’importanza dell’educazione … >
Dal 2 ottobre 2020, in occasione dell’anniversario della nascita di Ghandi, il film
documentario di Gaia Ceriana Franchetti “La ruota del Khadi –
l’ordito e la trama dell’India” è nelle sale italiane.
KHADI significa TELAIO : il rimedio per placare le tragiche carestie e lo stato di grave povertà della popolazione agricola dell’India. L’artigianato domestico, offrendo al contadino indiano una fonte integrativa di reddito, l’avrebbe aiutato a sopravvivere.
Ricordando che prima della colonizzazione inglese tutti i villaggi erano auto sufficienti, le donne tessevano i propri abiti e questo dava loro dignità.
Per Gandhi il FILATOIO A MANO, oltre a rappresentare la soluzione di un problema pratico, aveva anche un significato ideale simboleggiando la dignità del lavoro e l’uguaglianza delle classi sociali. Anche un ricco doveva filare : non producendo, avrebbe dovuto mangiare ciò che non gli apparteneva.
L' ARCOLAIO è uno strumento semplice che viene utilizzato per dipanare le MATASSE.
È simile all’ ASPO, da cui differisce per l'uso : l'arcolaio serve per disfare le matasse mentre l'aspo per costruirle.
Nella versione più diffusa è costituito da un albero dotato di un castelletto girevole (o una struttura di stecche con diametro regolabile) attorno a cui si posiziona la matassa da dipanare. L'albero è dotato di una base pesante o di un morsetto che mantengono stabile la struttura durante l'uso.
All'arcolaio, 1881-85 - Telemaco Signorini (Firenze 1835 - 1901)
Rif. articolo IL BANDERA nella sez. Textile Art
Reportage fotografico by Barbara CARICCHI e Mauro DRAGONI
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